Anni fa sono capitato in un contesto di lavoro terribile.
Ad essere onesto era colmo di persone estremamente brillanti: geni e alti potenziali ovunque, con tanta voglia di emergere.
Ma anche con un’aridità emotiva ed un’aggressività subdola e non consapevole distribuita gratuitamente per i corridoi e per le sale riunioni.
Sarcasmo e frustrazione davanti ad ogni singola macchinetta del caffè.
Era un contesto che incentivava l’incompetenza emotiva.
Col senno di poi mi sono reso conto che si era al limite della de-realizzazione e della de-umanizzazione.
Senza esagerare, tutto ciò che era l’aspetto emotivo delle persone veniva schernito, messo da parte e razionalizzato.
Contesti dove la premessa di base è che il cervello era un computer da programmare seguendo determinate linee guida, adattabili a tutti.
Dove si puntava tutto sul costruire abilità o capacità adatte alle aspettative del contesto, anzichè costruire un contesto attorno alle risorse subito disponibili e spendibili.
Dove l’aspetto emotivo delle persone passava in secondo piano, perché semplicemente considerato qualcosa che poco avesse a che fare col lavoro.
Eppure, più passava il tempo e più osservavo attentamente la realtà e mi accorgevo che chiunque, anche e soprattutto nella sua giornata lavorativa si trovava a fronteggiare un’ampia gamma di emozioni.
Le emozioni primarie, paura, rabbia, tristezza, disgusto, gioia; e le emozioni secondarie o sociali, come imbarazzo, gelosia, colpa, orgoglio; così come, le emozioni di fondo: benessere e malessere, calma, tensione.
Mi sono reso presto conto che nessuno, prima che studiassi psicologia, mi aveva insegnato a gestire le emozioni. La scuola non lo aveva fatto, la famiglia tanto meno, il contesto sociale, non pervenuto.
L’università?
La mia prima laurea era in economia, non c’era traccia di aspetti emotivi nell’homo economicus, prima del recente avvento dell’economia comportamentale, che porta (finalmente) la psicologia e l’emozioni nella vita e nelle scelte economiche delle persone.
Non si insegnava a comunicare, non si insegnava la gestione delle emozioni.
È molto più probabile che ci abbiano insegnato a nasconderle, perché “non è una buona cosa mostrarle”.
Il risultato è che siamo tutti e sempre di più, chi più chi meno, incompetenti emotivi.
L’incompetenza emotiva è arrivare ai picchi emotivi, è non sapere controllare gli impulsi, è mancanza di raffreddamento riflessivo, è scarsità di controllo e di espressione delle emozioni, ma è anche l’eccessiva dominanza del razionale sull’emotivo, non saper avvertire i sentimenti dell’altro e rimanere nell’indifferenza relazionale.
I contesti professionali, sono molto avvezzi a far emergere l’incompetenza emotiva attraverso barriere comunicative, ovvero forme di risposta fisse e rigide che bloccano lo scambio.
Contesti che hanno un chiaro effetto di condizionamento, se non di vera e propria modifica dei tratti caratteriali e comportamentali di una persona.
Sistemi che hanno il potere di condizionarci, contesti che nelle loro derivazioni fisiche e sociali, provocano nelle persone comportamenti solo poco prima inimmaginati dai protagonisti stessi.
Perché è proprio la psicologia che insegna che bene e il male non sono prerogative fisse, ma sono mobili, mutevoli, e ínsiti in ogni essere umano.
Per cui se osservi d’ora in poi episodi di rancore e cinismo nei luoghi di lavoro, non pensare possa essere sufficiente dissociartene sul momento per esserne immune.
Lentamente e senza neanche accorgertene, potresti ritrovarti ad assumere quegli atteggiamenti nei confronti di qualcun altro.
(Zimbardo e l’esperimento del carcere di Stanford ne sono la prova empirica).
Il contesto ci può rendere davvero ébeti.
Come d’altro canto, un altro contesto, può farci realmente fiorire.
Scegliamo bene dove stare, con chi stare.
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Dott. Davide Etzi
Psicologo, Psicoeconomista, Executive Coach e Terapeuta [www.davideetzi.it]
Consulente in management e sviluppo delle Persone nelle Organizzazioni [www.humanev.com]
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